E’ morto a Cosenza per un male incurabile Pino Faraca, conosciutissimo e amatissimo ciclista che negli anni ’80 ha rappresentato la Calabria nel mondo delle due ruote. Faraca, che lascia due figli, aveva 56 anni. Professionista dal 1981 al 1986, ha corso per Hoonved, Dromedario e Ariostea. Nessuna vittoria (se non la cronosquadre nel Giro d’Italia 1981), ma l’onore della maglia bianca come il migliore tra i neoprofessionisti sempre al Giro 1981. Ha corso con grandi campioni come Hinault, Lemond, Fignon, Moser e Saronni. Sempre nell’81, Faraca era nella rosa dei nomi del selezionatore della nazionale Alfredo Martini in vista dei Mondiali di Praga, ma una rovinosa caduta nel Giro dell’Appennino lo bloccò, finendo purtroppo per condizionarne l’intera carriera: Faraca passò dal ruolo di grande promessa a quello di comparsa, faticando sempre più a ritrovare il giusto colpo di pedale (settantanovesimo nel Giro 1982, fermo nel 1985, centoquattresimo nel 1986 e poi l’addio alle corse), fino al ritiro definitivo, nel 1986. Questo il ricordo di Faraca apparso sul sito tuttobiciweb.it.
La casa era in cima a un cucuzzolo: così, per uscire, scendeva, e per rientrare, saliva. E dai e dai, è diventato uno scalatore. E dello scalatore Faraca aveva tutto: il nome breve, Pino, perché un bravo scalatore deve risparmiare su tutto, anche sul nome; la statura, bassa, e il fisico, minuto, avrebbe potuto fare il timoniere o il fantino o il peso mosca, ma lui amava le biciclette, e non poteva che diventare arrampicatore; e la fantasia, ché quella, a un uomo destinato alla solitudine, alla semplicità e alla fatica, non manca mai. Pino Faraca aveva ereditato la passione dal papà Francesco, dilettante, che ricordava i suoi anni d’oro al nord, nella San Pellegrino, con Gastone Nencini. E così la bici era diventata non solo il simbolo della libertà e dell’avventura, ma anche un modo per guadagnarsi l’attenzione del papà, diviso fra sette figli, cinque maschi e due femmine. La prima bici, “normale”, specificava Pino, era stata una 14, color verde tipo Legnano: gli fu rubata proprio davanti alla porta di casa, e quella ferita non si è mai completamente rimarginata. La prima bici, “da corsa”, sottolineava Pino, era stata un’Atala: se l’era comprata papà Francesco, almeno così diceva, ma Pino sapeva che era destinata a lui, luminosa come una eredità, brillante come una missione, generosa come una staffetta. E da lì in poi, a Pino la bici avrebbe fatto viaggiare l’anima, cantare le gambe e pedalare le mani. Corridore e artista. Scalatore e pittore. Pino raccontava che “alle elementari la maestra canticchiava ‘pittore, ti voglio parlare, mentre dipingi un altare’, la canzone ‘Angeli negri’ di Fausto Leali, mentre io ero chino sul foglio a disegnare”. Pino ricordava che “al liceo feci l’artistico, poi mollai gli studi e saltai sulla bici, per ciclismo emigrai dal bergamotto al bergamasco, ma il ciclismo dava più garanzie dell’arte”. Pino giurava che “fin da quando ero piccolo, le cose che m’incantavano di più erano i paesaggi, i tramonti, i mari in tempesta, e quando scoprii Picasso fu una folgorazione, e quando studiai i cubisti trovai una strada”. Il Pino corridore era un guerriero: scattava, attaccava, battagliava. Da dilettante, poi anche da professionista. Il meglio, forse, il primo anno: sesto al Giro dell’Etna, quinto al Giro della Puglia pur dovendo obbedire agli ordini della squadra, in cui Giovanni Mantovani era il capitano, poi undicesimo al Giro d’Italia e primo fra i giovani, e subito davanti a lui in classifica, decimo, addirittura G.B. Baronchelli. Pino sosteneva che Dino Zandegù, il suo direttore sportivo, lo chiamava Peppino, e teneva una bottiglietta di grappa in macchina, perché non si sa mai, e che quando uno dei suoi era in fuga, continuava ad andargli avanti e indietro, e a sospirare “benedetto, benedetto” e a implorare “magna, magna”, anche quando il corridore gli rispondeva “ma ho mangiato tutto quello che c’era da mangiare”. Poi, però, per Pino, ogni volta che sembrava aprirsi una possibilità o nascere un’opportunità, puntuale una serie di sventure e disavventure a frenarlo, rallentarlo, appiedarlo. Il suo più grande rimpianto, il Tour de France, nel 1982: “Poteva essere la mia corsa, ma non stavo bene, e fui costretto ad abbandonare”. Ma Pino non abbandonò mai la pittura. Diceva che “quando si corre in bici, non si ha il tempo di guardarsi intorno, è già tanto che vedi la strada e le facce dei compagni e degli avversari, ed è vero che in salita si va piano e forse si potrebbe vedere di più, ma si va anche a tutta e la vista è come annebbiata”. Però Pino aggiungeva che “sensazioni, impressioni, emozioni rimangono dentro e poi fioriscono, soprattutto i colori, i colori sono tutto, sono vita, velocità, ciclismo”. E su quei colori Pino ha lavorato, pedalando con il pennello, pedalando anche con i sogni e i rimpianti, con i brividi e le nostalgie. Vicino all’espressione cubista e al dinamismo futurista. Oli su tela. Scene epiche, ma a volte anche ironiche. E non solo corridori, ma anche cacciatori e bagnanti. Aveva talento, Pino, anche giù dalla bici. Attaccata la bici al chiodo, Pino è rimasto fra le bici. Aveva un negozio, vendeva bici firmate e bici firmate anche da lui: le Faraca. Finché, otto mesi fa, è stato aggredito da un tumore al cervello. Una prima operazione. Una seconda. La fine improvvisa. Poco fa. Lunedì il Giro d’Italia riposerà a Catanzaro. Pino riposerà a Cosenza, idealmente fra le sue bici e i suoi quadri. Chissà che colore starà dipingendo.
(da Tuttobiciweb.it)